L’Italia ha abolito la censura! Ma aveva ancora senso?

di Giancarlo Di Stadio

Annunciata da pochissimo l’abolizione definitiva della censura nella cinematografia Italiana dal Ministro della cultura Dario Franceschini. L’Italia ha abolito la censura! Ma aveva ancora senso?

È notizia, strombazzata un po’ ovunque, che la censura cinematografica in Italia non esiste più.

Lo annuncia, con grande giubilo, il Ministro Franceschini, fanno da cassa di risonanza gli organi di stampa, esultano i cinefili, i portali marciano con titoli e click, ecc… ecc… ecc…

La domanda però sorge spontanea: aveva ancora senso la censura? O meglio, ha senso parlare di abolizione della censura?

Quando pensiamo alla censura subito ci vengono in mente due opposti: o l’opprimente clima distopico di 1984, con tanti Winston Smith che passano le loro giornate a tagliuzzare e incollare per far si che il prodotto letterario o audiovisivo sia fedele al Partito, oppure ci viene in mente la scena quasi comica del prete di Nuovo Cinema Paradiso che, con il campanellino, indicava le scene (in quel caso i baci) da tagliare al povero proiezionista Alfredo.

In realtà la censura, non solo quella cinematografica, è un qualcosa di più complesso rispetto al semplice taglie e cuci, un qualcosa che opera su più livelli: dal finanziamento alla produzione e distribuzione, passando per la promozione e per il riconoscimento e conferimento di premi e status.

 

In Italia la censura cinematografica, parliamoci chiaro, era de facto morta da tempo.

Negli ultimi 38 anni (!) ci sono stati solo tre casi di censura, di cui due “alla luce del sole”, ed uno decisamente più nascosto che non può nemmeno essere definito di censura “classica”.

Nel 1998 toccò a “Totò che visse due volte”.

Il film fu ritenuto blasfemo e sacrilego e ne fu dunque vietata la proiezione.

Ciò portò ad una causa legale che, alla fine, fu vinta dalla produzione e dal regista.

E il film uscì comunque. Molti considerano “Totò visse due volte” come il momento in cui si è capito finalmente che la censura in Italia era ormai inutile.

 

Inutile, ma con due colpi di coda. L’anno successivo, correva il 1999, Pasquale Squitieri ebbe l’idea di girare un film sul risorgimento. 

L’ennesimo? Dio ce ne scampi! Eh no, perché invece della solita angiografia su Garibaldi, Cavour, Mazzini e bla, bla, bla, Squiteri decise di guardare il risorgimento dalla parte dei vinti.

Con “E li chiamarono briganti” il regista mise in scena le ragioni di chi il processo di unificazione al Piemonte e di conquista dei Savoia l’aveva subito: i briganti meridionali.

La storia di Carmine Crocco, dipinto come una sorta di capopopolo e non come, da sussidiario delle elementari, un rozzo brigante, indignò a tal punto il gotha intellettuale italiano che partì un’incredibile macchina di boicottaggio.

Il film non fu censurato direttamente, ma indirettamente, fino al momento in cui fu praticamente tolto dalle sale su pressioni, secondo alcuni, addirittura dello Stato Maggiore dell’Esercito.

Risultato? Il film, dal punto di vista del prodotto nemmeno così eccelso, è finito per diventare un cult nell’ambiente meridionalista e identitario.

Il passaparola ha dato alla pellicola una seconda giovinezza.

E quello che poteva essere uno dei tanti film storici pronti per il dimenticatoio è diventato una sorta di manifesto politico delle ragioni storiche del Sud Italia.

Inoltre è da anni interamente su YouTube in libera visione gratuita!

L’ultimo film, anno 2011, ad avere avuto l’onore di essere censurato è stato invece “Moritus”, un mediocre splatter che fu censurato “per motivi di offesa al buon costume, intendendo gli atti di violenza e di perversione sulle donne, motivati dal gusto della sopraffazione e dall’ebbrezza della propria forza rafforzata dal consumo di alcool e droga”.

Attualmente il film è disponibile in DVD versione estera e in Italia può essere proiettato solo ai festival cinematografici. Ma chiunque, leggermente smanettone, ne può trovare una copia su internet.

La domanda quindi è: negli ultimi 38 anni, con all’attivo ben 3 censure (di cui una indiretta) fondamentalmente inutili, a cosa serviva una commissione per censurare?

Se dovessimo rispondere in maniera generale possiamo dire che la commissione e quindi la censura serve per far aderire un prodotto a delle linee guida, ad una visione, ad una determinata prospettiva sul mondo.

Inutile nascondercelo, tale prospettiva coincide sempre, a parte rari casi di epoche di “cambiamento”, con la prospettiva dell’ideologia delle classi dominati.

Ad esempio “E li chiamarono briganti” fu boicottato perché forniva una visione diversa rispetto al “mito fondante” dell’Italia.

La censura è atto politico prima che morale.

Infatti, nell’immaginario collettivo, essa è legata soprattutto a paesi che consideriamo dittature (come la Germania Nazista o la Cina Maoista).

Quindi in paesi “liberi” essa non dovrebbe esistere. Non dovrebbe, appunto.

Anche il paese più “democratico” del mondo ha comunque un’ideologia alla base del suo sistema di valori. Ideologia non è un termine per forza negativo, chiariamo.

Quindi è naturale che la produzione culturale di tale paese rispecchi, direttamente o indirettamente, tale ideologia.

Oppure cerchi in qualche modo di contrastarla. Semplicemente perché quest’opera non nasce dal nulla, ma da un contesto in cui l’ideatore la crea.

Lo scrittore, il regista, l’artista con la sua opera vuole comunicare qualcosa in relazione “al dove e al quando”, al luogo e al momento storico in cui vive.

La censura non fa altro che rispondere al bisogno di un potere statale (o del potere di una classe sociale che domina quello stato) di tenere tale messaggio entro dei binari stabiliti e non pericolosi.

Che il messaggio dell’opera sia rafforzativo dell’ideologia dominate o che comunque non ne sia in aperto contrasto.

Alla luce di questo chiarimento, torniamo alla domanda principale: la censura aveva ancora senso in Italia?

La risposta è “no”, ma non perché sia idealmente giusto (e lo è) che un’opera sia libera da vincoli. Ma perché l’opera nei paesi occidentali è censurata a monte.

È già sottoposta alla censura “del mercato”.

Quindi che senso ha avere una commissione che certifica che una produzione rispetti determinati criteri se tale produzione già per essere prodotta ha rispettato quei criteri?

Nel mondo occidentale tardo-capitalista la classe dominante coincide con chi finanzia, produce, distribuisce, sponsorizza e premia i prodotti culturali.

Se le grandi corporation decidono cosa produrre e lo producono già secondo l’ideologia dominante, che senso ha avere una commissione che cesura? 

Cosa dovrebbe censurare se ciò che arriva già rispecchia gli standard secondo i quali tale commissione è chiamata ad agire? Qualche orpello secondario? Una tetta troppo in vista che in ogni caso non è assolutamente in contrasto con i valori liberal-borghesi del resto della pellicola?

Inoltre nell’epoca del trionfo dei formalismi, la stessa parola “censura”, che evoca brutti ricordi, può essere eliminata generando l’illusione di una libertà “a valle” che comunque non sempre è garantita “a monte”.

Se chi controlla la produzione controlla, a cascata, anche distribuzione, promozione, premi, ed è ideologicamente affine all’ideologia dominante che dovrebbe censurare, egli produrrà già, per sua natura anche solo involontariamente, contenuti che rispecchiano tale ideologia. 

E che quindi sarebbero comunque stati in linea con la censura. Si tratta si eliminare solo un passaggio superfluo.

La posta in gioco non è di poco conto.

Ad inizio secolo gli USA, la patria delle nuove forme di audiovisivo, combatterono strenuamente, attraverso il Paramount Act, il raggruppamento di produzione e distribuzione in capo agli stessi soggetti.

Certamente per motivazioni poco idealistiche, ma che, all’atto pratico, consentirono di coltivare le condizioni che, decenni dopo, portarono alla nascita della “New Hollywood” e del momento d’oro del cinema d’autore.

Oggi, senza accorgercene, siamo andati oltre: non solo produzione e distribuzione sono in capo agli stessi soggetti (Netflix, Disney+, Prime Video), ma essi controllano anche la promozione, attraverso algoritmi delle loro piattaforme che “sponsorizzano” contenuti da loro ritenuti “da promuovere”, indirizzano indirettamente anche i premi e le recensioni, e soprattutto condividono totalmente l’ideologia con la classe dominante che detta la linea ideologica del paese (e del mondo occidentale).

Insomma, ciò che si è venuto a creare è una gigantesca torre d’avorio autoreferenziale in cui ciò che viene prodotto è già gradito alla stessa torre.

Perché è la torre stessa ad averlo prodotto secondo la sua visione del mondo.

A ciò aggiungiamoci che, mentre fino a qualche anno fa, il “vecchio col sigaro” non capendo nulla di ciò che produceva era anche propenso a prendersi la sua dose di rischio affidandosi a qualche ragazzetto emergente dalla faccia simpatica, adesso, con il feudalesimo manageriale imperante nelle fabbriche dell’arte, ci troviamo davanti ad una schiera di director, editor, vicedirector, supermegaeditor che, dall’alto della loro bolla autoreferenziale, credono che i gusti del pubblico siano uguali ai loro gusti… imbevuti di ideologia della torre.

Certo, giustamente obietterete: nessuno vieta ad un esordiente di scrivere un romanzo, ad un cantante in erba di incidere un singolo, ad un poeta di scrivere una poesia.

Ma, parliamoci chiaramente, se Feltrinelli o Mondadori non ti pubblica il libro, puoi sperare, nell’ormai sovrapproduzione culturale di oggi, nel grande successo? Se sei fortunato, ed hai una grande combinazione di “botte di culo”, forse si. 

Ma sarà sempre una strada decisamente impervia rispetto a chi, già parte della torre d’avorio (e quindi portatore di una visione del mondo già espressione di tale torre o comunque funzionale a tale torre), può accedere più facilmente ai canali di distribuzione, promozione e riconoscimento della torre.

L’artista, il regista, lo scrittore ha il controllo sulla produzione e, limitatamente, sulla distribuzione.

Poi intervengono altri fattori. Ed è qui che la censura del mercato “a monte” può fare il suo corso rendendo inutile la censura politica “a valle”.

Insomma il colpo di spugna sulla censura, per quanto possa almeno formalmente far gridare di gioia, non risolve molto. Ufficializza soltanto una situazione de facto in atto già da anni. L’opera “scomoda” secondo i canoni della torre non vedrà comunque mai la produzione. 

O se la vedrà non riuscirà mai, a livello di distribuzione e promozione, ad accedere al ristretto novero delle opere “in mostra”.

Se domani la torre decide, facciamo un esempio banale, che l’avere un gatto è un valore da veicolare, tu puoi scrivere anche il più grande capolavoro sul rapporto uomo-cane.

Esso però si scontrerà con la difficoltà di pubblicazione da parte delle case editrici della torre. Poi, trovata una casa editrice indipendente, sulle difficoltà di distribuzione e promozione che le limitate risorse di tale casa editrice, pur con tutta la passione del mondo, non saranno in grado di fornirti.

Non avrai accesso a premi farsa, a presentazioni autoreferenziali, a marchette concordate, a recensioni compiacenti.

Tutte cose che fanno la differenza tra un mediocre successo commerciale e un capolavoro che sta a prendere la polvere su qualche scaffale o in qualche libreria di paese.

Il quadro non è però così fosco. Gli strumenti di produzione, negli ultimi anni, hanno subito un processo di democraticizzazione incredibile.

Mercati culturali “nuovi” come quello dei videogiochi hanno saputo sfruttare meglio questa cosa rispetto a quelli più vecchi e autoreferenziali come l’editoria.

Certo, la torre è comunque riuscita, prendiamo il caso della musica, ad inglobare generi e tematiche (l’indie, la trap, il rap) nate fuori dalla torre, creando mediocri pupazzi, più forma che sostanza, graditi alla “censura” della torre.

Ma le possibilità tecnologiche stanno anche cambiando e democraticizzando la distribuzione.

Portali di musica indie, e-commerce di librerie indipendenti, client di video-giochi indie sono tutti canali di distribuzione che stanno sempre più prendendo piede e che offrono una platea di opere nate e concepite fuori dalla torre.

La stessa esplosione di portali e siti di nicchia ha bypassato anche il monopolio della torre sulle recensioni e sulla “creazione del capolavoro”.

Ora, accanto alla marchetta concordata, se sai cercare, trovi anche pareri autorevoli e neutri.

La strada è lunga, ma a pensarla positivo si può dire che come è arrivato il giorno in cui la censura dello stato è diventata fondamentalmente inutile, arriverà anche il giorno in cui la censura “del mercato” lo sarà altrettanto. 

Bisognerà solo attendere che, come la tecnologia ha superato l’apparato repressivo dello stato, così essa supererà anche le disponibilità economiche e relazionali della torre.