27 gennaio 1945: perché è importante ricordare?

27 gennaio 1945: perché è importante ricordare? È davvero così importante per noi parlare di quello che è successo decine di anni fa?

Perché ci ostiniamo a ricordare ogni anno il giorno del 27 gennaio? È davvero così importante per noi parlare di quello che è successo decine di anni fa? Conosciamo davvero la storia oppure possediamo false informazioni?

“Se comprendere è impossibile conoscere è necessario” scriveva Primo Levi, ma è così?

Noi italiani possediamo un autore del calibro di Primo Levi, eppure nelle scuole viene quasi dimenticato, come se ciò che ha scritto passasse in secondo piano rispetto alle opere di altri scrittori meritevoli di lode.

Come se, basandosi su un argomento “semplice” come l’Olocausto, Primo Levi si sia aggiudicato l’etichetta di “autore da studiare alle medie”; eppure, il suo modo di scrivere è pulito, chiaro e diretto e il tema da lui affrontato è forse quello più umano e meno umano allo stesso tempo.

Non c’è bisogno di spiegare cosa sia un campo di concentramento e che peso abbia avuto il nome “Auschwitz” nella vita di milioni di ebrei; risulta superfluo elencare le numerose torture patite da queste persone, la perdita d’identità a cui sono stati sottoposti (soprattutto le donne); non c’è bisogno di stilare una lista delle persone morte in pochi anni per mano del nazismo e non c’è bisogno di specificare che i campi di concentramento erano una realtà riservata a molte categorie, non solo agli ebrei.

Ciò che vogliamo indagare oggi è il motivo per cui tutto questo è stato messo su carta e perché, ancora oggi, ce ne preoccupiamo.

Per Primo Levi, scrivere è stato un modo per testimoniare, per far sì che gli orrori accaduti non venissero dimenticati da nessuno e afferma che il bisogno di scrivere e quello di mangiare erano sullo stesso piano.

Alimentavano la vita in egual modo. Così, dedica la sua essenza a questo: pubblica libri, gira scuole, radio, televisioni, il tutto per continuare a rinfrescare la memoria.

Molte sono state le domande a lui poste: “Li ha perdonati?”, “I tedeschi sapevano?”, “Secondo lei un altro massacro del genere può esserci ancora?”, “Cosa si deve dire e non dire ai giovani per far costruire una loro identità etica?”

Le risposte seguono il filo conduttore di ogni suo libro e hanno il minimo comun denominatore nel solo desiderio di non permettere che ciò che è successo venga dimenticato.

Primo Levi si è suicidato, ma quando? E perché?

Non esistono certezze ma pare che l’autore iniziasse a non ricordare più, a dover consultare i libri per poter dire qualcosa. Aveva paura di non essere più in grado di testimoniare.

Primo Levi non sapeva più cosa scrivere e la vita gli è sembrata inutile, totalmente inutile perché non capace più di testimoniare.

Forse questa è un’enorme condanna per quello che ha vissuto: al momento che si è sentito un attimo di cedimento, un attimo di vuoto dentro, gli è sembrata priva di senso la vita.

La sua morte è stata un grido per costringerci a non dimenticare: “Se dall’interno dei Lager un messaggio avesse potuto trapelare agli uomini liberi, sarebbe stato questo: fate di non subire nelle vostre case ciò che a noi viene inflitto qui”.

Abbiamo, noi tutti, un dovere morale e etico verso ogni persona morta perché colpevole di essere in un modo non accettato dagli altri.

Questo discorso non si ferma al secolo scorso, ha ridondanze ancora oggi.

Allora noi ci sentiamo di dire: non dimenticate perché la conoscenza vi/ci farà liberi di esprimere e di vivere noi stessi come meglio crediamo.