A Napoli si è artisti… per necessità: sarà vero?

di Giancarlo Di Stadio

A Napoli si è artisti… per necessità: sarà vero? Una riflessione personale ed umile al riguardo!

Una volta un mio professore disse che per scrivere un libro dovevi avere una vita incasinata.

Ora, senza voler rischiare querele da mediocri parolai, veicolatori delle peggio banalità tematiche e valoriali, volgiamo dire che non è vero? D’altronde se ripercorriamo la storia della letteratura e dell’arte italiana troviamo che i suoi più grandi esponenti erano figure che vivevano un grande disagio interiore.

Prendete ad esempio un Leopardi, un Dante, un Caravaggio, un Michelangelo. Tutte figure che, in un modo o nell’altro, trovavano nell’arte un modo di esprimere il loro disagio, il loro non sentirsi incasellati in questa società.

Un’altra professoressa un giorno invece ci spiegò perché buona parte degli scrittori di inizio ‘900 erano siciliani.

Ora, al netto di programmi ministeriali sempre più padano centrici, è innegabile che buona parte della letteratura di inizio secolo scorso sia di marca siciliana. Pirandello, Sciascia, Quasimodo.

La sua risposta era semplice: hanno qualcosa da raccontare. Hanno una società, un ambiente, che offre spunti per raccontare.

Siamo quindi di fronte a due livelli: un disagio interiore e un disagio sociale.

E le due cose spesso vanno di pari passo, perché un artista vive sia un disagio con se stesso, sia un senso di estraneità per  la società in cui vive (o in cui è costretto a vivere).

In assenza di queste due cose non c’è arte. Solo produzione di materiale artistico, che è cosa ben diversa.

Napoli in tal senso rappresenta, oggi, il brodo di coltura ideale. Una metropoli non più antica, ma nemmeno moderna. Almeno non nel senso moderno che l’occidente vuole imporre.

Non è un caso che spesso artisti mediorientali o africani dicano di sentirsi “a casa” a Napoli. Perché Napoli non è europea. O meglio, chiariamo, non è europea nel senso moderno del termine.

E’ una città che vive in bilico tra una tradizione che odia, ma a cui non può e non vuole rinunciare, e una modernità che fa fatica ad accettare, eppure la desidera. E il disagio di essere una sorta di “mondo di mezzo” si esprime perfettamente nell’arte.

Totò, Troisi, Pino Daniele, Scarpetta, De Filippo, tutti sembrano intrappolati nel ruolo della “macchietta”, tutti sembrano essere stati “incasellati” a forza nello stereotipo del napoletano, della loro arte come “napoletana”, dei loro comportamenti come “napoletani”.

Tutti si aspettano da loro archetipi e stereotipi “napoletani”.

Eppure loro, attraverso la loro arte, comunicano in un linguaggio universale che va oltre questa “gabbia”. Che, appunto, attraverso la napoletanità, cerca di esprimere la sua universalità.

Non è un caso che alcuni luoghi siano un brodo di colture più favorevole rispetto ad altri per la nascita di arte e artisti.

Come l’Italia del rinascimento, un paese sconvolto da 50 anni di guerre, colpi di stato, conflitti, innovazioni e invenzioni è stato il grande brodo di coltura per l’arte del ‘500, così Napoli lo è per quella italiana del ‘900/2000.

Ma Napoli lo è anche perché rappresenta, in grande, il concetto di periferia opposto a quello di centro. Il concetto di “innovazione artistica” opposto a quello di “standardizzazione artistica”.

A Milano Centro girano i soldi e le passerelle dell’arte istituzionale.

A Napoli, come nel resto della gigantesca periferia che è ormai questo paese girano le innovazioni, le contaminazioni, le sperimentazioni.

La scuole di scrittura da TOT K l’anno e pubblicazione garantita con case editrici meneghine non fanno arte, fanno produzione artistica. Ricordiamolo sempre.

“Dal letame nascono i fiori” e non è un caso che a dirlo è stato un cantautore, o forse meglio definirlo poeta in musica, che era di Genova.

Città di mare, città di contaminazioni. Ma non quelle dei ricchi, dei finanziari di Piazza Affari, dei milionari annoiati. No, quelle servono per l’arte istituzionale, per la produzione artistica appunto.

Quella che piace agli incravattati fino a quando non si accorgono che possono lucrare anche su altro.

No, contaminazioni degli ultimi, degli esclusi, di coloro che hanno qualcosa da raccontare.

Che hanno insomma tutte le caratteristiche per “fare” arte, non per “produrla” semplicemente.