La casa di carta: pensiero critico sulla serie “boom”

La casa di carta: pensiero critico sulla serie “boom” spagnola presente sulla piattaforma streaming Netflix.

Avete presente il concetto di spremere la vacca finché fa latte? Purtroppo nel mondo dell’intrattenimento di oggi, dominato prima dalle logiche del mercato, poi dai messaggi politici da parte di chi tiene le redini delle logiche del mercato e solo in ultima istanza dalla qualità artistica o dall’idea dell’autore, di esempi ne siamo pieni.

La Casa di Carta, era una piacevole serie spagnola… è diventata una trashata americana

Senza voler buttare il sale su di una ferita mai rimarginata, la nuova trilogia di Star Wars, e senza voler fare previsioni apocalittiche, ma purtroppo realizzabilissime, su altri prodotti della casa di Topolino, come ad esempio il Marvel Universe, diciamo che di esempi di franchise spremuti fino all’inverosimili abbonda anche il mondo delle serie tv.

Qualcuno ha detto The Walking Dead o La Casa di Carta? Già, la Casa di Carta.

Nato come un prodotto autoconclusivo del canale spagnolo Antena 3, la Casa di Carta ha ottenuto in brevissimo tempo un successo inaspettato, tanto da essere acquistata e distribuita all’estero da Netflix. E qui sono iniziati i problemi. Perché, analizzando cosa era la Casa di Carta e cosa è diventata con Netflix, ci renderemo conto di come una piacevole serie tv spagnola, con, a modo suo, anche qualche tema e qualche spunto interessante, è stata letteralmente trasformata in una trashata assurda.

Storia “tragica” di una serie tv

Se fate parte delle pochissime persone che non hanno visto la Casa di Carta, la Casa de Papel in lingua originale e Money Heist in inglese, in quanto confondibile con House of Card con Kevin Spacey (p.s: chiariamo una cosa, l’ultima stagione senza Spacey non esiste!), sappiate che si tratta del classico prodotto di intrattenimento che ruota attorno ad un colpo in banca.

Senza addentrarci in spoilerate, un uomo estremamente intelligente raggruppa un gruppo di persone, che non si conoscono e che si chiamano tra loro con nomi di città, con un passato torbido e propone loro un colpo mai tentato prima: rapinare la zecca di Spagna. Cioè non rapinare una banca, ma entrare dove materialmente si stampano i soldi, stamparli e fuggire. Naturalmente, grazie alle idiozie di uno dei personaggi più odiosi della storia dell’audiovisivo e all’immancabile “fall in love” il piano, così accurato sulla carta, subisce una serie di contraccolpi.

Così ci si dilunga verso il finale abbastanza climatico e con colpi di scena molto fan service, ma al contempo abbastanza azzeccati, per un totale di una stagione autoconclusiva. E già qui, al passaggio da Antena 3 a Netflix le cose cambiano.

Perché Netflix, pesando il suo target e ritenendo che 50 min. di puntata siano troppi, decide di stravolgere tutto. Rimonta la seria in modo che invece di una sola stagione con puntate lunghe ci siano due parti con puntate brevi. Così facendo però il filo della trama viene cambiato. Nulla di irreparabile, comunque.

La serie continua ad essere piacevole. Per quanto non eccessivamente originale, si lascia guardare. Ed anche le tematiche, con questa sorta di Robin Hood mascherati da Dalì che rubano “non-rubando”, sono tutto sommato molto accattivanti.

Gli stessi personaggi, al netto del fatto che oltre il personaggio più odioso della storia dell’audiovisivo c’è anche la medaglia d’argento di personaggio più odioso della storia dell’audiovisivo, sono comunque scritti in modo decente e le loro motivazioni sono, per quanto non certo capolavori di caratterizzazione, decisamente plausibili.

Ma soprattutto, torno a ripeterlo perché è importante: la serie è perfettamente autoconclusiva.

E invece no!

Netflix fiuta l’affare a mette in cantiere la terza parte, a cui poi si aggiunge una quarta e infine una quinta. E di fronte al problema su come far tornare indietro personaggi che sostanzialmente hanno ottenuto il loro lieto fine, si inventa situazioni assurde e poco credibili anche in un contesto di forte sospensione dell’incredulità a cui ci aveva abituato la prima stagione.

Affidando al personaggio più odioso e al secondo personaggio più odioso il compito di “rompere” l’equilibrio, la serie inizia di diventare la caricatura di se stessa. Le situazioni diventano sempre più irrealistiche, le motivazioni che spingono i personaggi ad agire diventano sempre più assurde e le tematiche sempre più targettizzate sul fan-service e non sulla plausibilità.

Lo stesso moto “rivoluzionario” che spingeva dei poveri disperati a stampare denaro e che sottintendeva, forse sto sopravvalutando gli autori(?), anche una riflessione sulla convenzione sociale che c’è dietro l’esistenza del denaro e le regole circa la sua distribuzione. Tutto viene cancellato… per denaro, della produzione.

Così la serie viene inondata del più classico progressismo woke, mentre gli stessi personaggi non agiscono più per motivazioni plausibili, ma solo per esigenze di trama e per occhiolini qua e là a target rumorosi e alto-spendenti (quelli che si fanno pagà l’abbonamento Netflix dal papi, per intenderci).

Insomma non c’è qualità, non c’è visione e non c’è tematica. La qualità scompare, la visione ti chiedi se ci sia mai state e le tematiche vengono ridotte al servizio del mercato. Insomma, un classico prodotto “industriale” Netflix. Che però ha la “colpa” di finire, pur di continuare, ad essere l’esagerazione di se stesso.

Così, con lo spettatore che per inerzia continua a vederla solo perché aumenta la quota del trash, la serie aumenta la quota trash. Proprio perché è ormai l’unico motivo per cui lo spettatore la guarda ancora.

Una spirale di “cattivo gusto” che ha così trasformato un prodotto piacevole in una serie estremamente mediocre e, purtroppo, estremamente in linea con la maggior parte del catalogo Netflix.

Ma questa è un’altra storia!