Letteratura vittoriana: da Oscar Wilde a Dickens

Letteratura vittoriana: da Oscar Wilde a Dickens la fervenza culturale nell’Inghilterra della regina Vittoria.

La letteratura vittoriana è forse la più amata tra i lettori di tutto il mondo. Del resto l’epoca vittoriana è stata un periodo di grandissimi cambiamenti.

Londra, a capo del più vasto impero della storia, governava su ogni continente.

I popoli più disparati erano fedeli a Sua Maestà.

La rivoluzione industriale era nel suo pieno e con essa nuovi bisogni, nuovi ideali e nuove battaglie.

La borghesia, uscita trionfante dalla Rivoluzione Francese, applicava i principi del liberalismo, del capitalismo e del positivismo.

Lo stesso progresso scientifico faceva credere all’umanità che il mondo sarebbe stato sempre migliore.

Un continuo progresso, esattamente come la corsa senza sosta di un treno a vapore.

C’era però un lato oscuro in tutto questo: le ciminiere delle grandi fabbriche, le prime multinazionali della storia, i grandi capitali e grandi banche. Tutto si reggeva sullo sfruttamento del popolo.

Accanto al finto perbenismo e alla oppressiva moralità vittoriana, accanto al bigottismo e alla correttezza formale, le peggiori ingiustizie venivano consumate per la sete di denaro.

Bambini nelle miniere, colonie sfruttate, lavoratori che non avevano nemmeno il salario per comprare i prodotti che materialmente costruivano.

Così, mentre dame e gentiluomini, pulzelle e rampolli, riempivano i loro pomeriggi col thè delle colonie d’oltremare e si dilettavano con libri e poesie, la società vittoriana esplodeva in tutti i suoi contrasti.

Marx gridava ai proletari di tutto il mondo di unirsi. Un grido che cominciava a raccogliere migliaia di “pezzenti” pronti a puntare al Sol dell’Avvenire.

Naturale quindi, che con un fermento del genere, la letteratura non potesse non trarne spunto.

La poesia lascia quindi il campo alla prosa, la bellezza bucolica che aveva contraddistinto i secoli precedenti lascia ora il posto a scenari urbani, brutti e tristi. Charles Dickens con la sua penna mette nero su bianco le disuguaglianze della società vittoriana.

I bambini costretti a chiedere l’elemosina, gli operai considerati meno di un numero, l’inquinamento che cambiava il volto delle città.

Nel frattempo Oscar Wilde mette a nudo l’ipocrisia della morale, l’ossessione, ancora oggi molto viva e dannosa nel mondo anglosassone, per la forma prima che per il contenuto.

Una società ossessionata dalla perfezione formale, mentre, proprio come il celebre dipinto di Dorian Gray, la sua umanità cade metaforicamente a pezzi.

Accanto a ciò la letteratura e l’arte sperimentano una prima riduzione a prodotto. Il libro diventa un oggetto di consumo prima che di piacere.

La censura inizia ad essere pervasiva e la “buoncostume” epura spesso opere letterarie e teatrali dei tabù più scomodi.

Nonostante ciò l’arte, intesa anche assieme alla letteratura, esiste e resiste.

Il pessimismo di Tomas Hardy è un costante rimando alla dicotomia tra una vita ideale desiderata e quella davvero vissuta. Robert Luis Stevenson invece si getta nell’avventura. “L’isola del tesoro”, il lasciare con la mente la sterile routine della città-fabbrica per solcare i mari.

In “Lo strano caso del dottor Jekyll e di mr.Hyde” Stevenson però riprende, come fa anche Wilde, l’analisi dell’animo umano e lo sdoppiamento tra Bene e Male.

Naturalmente ciò non può esulare dal contesto. In tal senso il romanzo può apparire proprio come una metafora della società vittoriana. Uno scontro tra due versioni della stessa società: la tanto perfetta apparenza in contrasto con la realtà maligna fatta di ingiustizie e sopraffazione.

Accanto a questa pulsione di ribellione e di ingiustizia c’è però anche quello che viene definito il “compromesso vittoriano”.

Soprattutto le autrici donne nei loro romanzi cominciano a mettere in scena una sorta di baratto: l’inserimento di poche nei piani alti della società, in cambio della rinuncia ad una lotta più generale alle ingiustizie.

Romanzi come Jayne Eyre oppure le figure femminili andogine di Trollope sono pervase da una voglia spasmodica di essere accettata ed inserite nella società.

Si tratta in questo caso più di un tentativo di mostrare una volontà di uscire individualmente dalla subordinazione (restando però sempre all’interno di una società che permette di subordinare altri) che nei secoli precedenti aveva relegato la donna ad un ruolo marginale piuttosto che un tentativo di denunciare tali meccanismi di subordinazione.

Il punto di vista femminile in questo caso non è tanto interessato alla denuncia della società, ma al desiderio di far parte della società con ruoli di primo piano.

Fa comunque eccezione George Eliot (alias di Mary Ann Evans) che invece, riprendendo tematiche trattate già in precedenza da un’altra grande scrittrice, Jane Austen, ci va giù penante con l’ipocrisia dei signorotti di campagna, trattando con lucidità anche temi strettamente politici.

Nella seconda metà del secolo le pulsioni ribelli tornano ad emergere sul compromesso.

Il già citato Wilde, l’attuazione concreta delle teorie di Marx con la nascita dei primi partiti socialisti, le trade union dei lavorati. Ma anche romanzi come “Cuore di Tenebra” di Conrad mostra come la natura non si può “rinchiudere” in palazzi di vetro, mentre Thomas Hardy con “Tess d’Uberville” amaramente ci fa constatare come la società sia ingiusta e che anche la giustizia alla fine, perdonate il gioco di parole, non può renderti giustizia.