SQUID GAME: giocare ad essere umani

di Myriam Leone

SQUID GAME: giocare ad essere umani. La serie tv sud coreana originale Netflix che sta spopolando, vista sotto la lente della psicologia.

Cosa sei disposto a fare per vincere 34 milioni di euro? Scommetteresti anche la tua vita? Con queste domande vi introduco uno dei kdrama che sta letteralmente spopolando sulla piattaforma Netflix (è al 1 posto, ancora oggi, nella top 10 in Italia): Squid Game.

Creato e diretto da Hwang Dong-hyuk, con un cast magistrale (Lee Jung-jae“Chef of Staff”; Park Hae-soo “Prison Playbook”; Wi Ha-joon “Something in the Rain”; e tanti tanti altri…) questo kdrama racconta di un gruppo di 456 persone con difficoltà e problematiche legate al denaro, che viene invitato a partecipare ad una serie di misteriosi giochi per vincere un montepremi di 45600000000 Won (circa 34 milioni di euro).

La dipendenza da gioco d’azzardo in Squid Game

Seong Gi-hun, un uomo che soffre di dipendenza da gioco d’azzardo e sommerso di debiti, non riesce nemmeno a comprare un regalo per il compleanno della figlia, che ormai vive con la madre e il nuovo compagno di quest’ultima.

Incontra fortuitamente in una stazione un uomo ben vestito (e che uomo, non vi spoilero niente XD), che gli chiede “Signore, ha un minuto? Vorrei offrirle una grande opportunità … Le va di fare un gioco con me?”.

Opportunità… Squid game dà la possibilità di entrare a fondo nel profondo e complicato sistema socioculturale coreano, scavando nei meandri più bui e complessi di una nazione che abbandona chi, per scelta o per destino, si trova a vivere difficoltà e complicazioni.

Song Gi-Hun, come altri giocatori, soffre di dipendenza da gioco d’azzardo; Cho Sang-woo, amico di infanzia di Song Gi-Hun è accusato di aver rubato soldi ai clienti dell’azienda per cui lavorava; Jang Deok-su è un gangster che partecipa perché deve, come molti, dei soldi a degli strozzini…

Tutti questi personaggi hanno fatto “scelte sbagliate”, ma hanno avuto la possibilità di scegliere; c’è invece chi si è ritrovato, per “destino” a dover patire difficoltà e problemi: Kang Sae-byeok, una profuga nordcoreana che vorrebbe usare il montepremi per salvare i suoi genitori, ancora nel Nord; oppure Anupam Tripathi, giovane pakistano che ci mostra come vengono delle volte sfruttati gli immigrati, e che vorrebbe il montepremi per riportare in Pakistan la moglie e il suo bambino; ed infine Ji-yeong, che ha una storia familiare alle spalle di violenza e omicidi .

Ti immedesimi in questi personaggi, delle volte li compatisci, delle altre pensi che forse è giusto non provare nemmeno un briciolo di empatia. A tratti li ammiri, a tratti li odi…

Ed è questa, a parer mio, la particolarità e la bellezza di questo kdrama: la sua dualità.

In un mondo costruito ad hoc, che ci riporta all’infanzia, il periodo dell’innocenza, della bontà d’animo, della purezza e della fragilità, si realizzano atrocità, morti, tradimenti, uccisioni (magistrale è anche il set costruito con colori pastello, nuvolette, che però va man mano ad incupirsi, quasi a seguire il tragico destino di molti giocatori).

Eccezionale è l’espediente mediante il quale i giocatori devono gareggiare non attraverso dei giochi logici e mentali adulti (come ad esempio nell’altro grande jdrama “Alice in Borderline), ma con giochi dell’infanzia (Il titolo “Squid Game”, letteralmente “Gioco del Calamaro” è un gioco d’infanzia sudcoreano: vi è un area di gioco divisa in diverse parti: un rettangolo, un triangolo e un piccolo cerchio – queste forme diventano anche i simboli cardine di tutto il kdrama – ; vi sono attaccanti, che partono dal cerchio, e i difensori, che invece partono dal triangolo. Gli attaccanti possono muoversi solamente saltellando su un solo piede e devono raggiungere l’altra estremità dell’area evitando che i difensori li spingono oltre la linea del gioco. Non preoccupatevi se sembra difficile da capire, perché  nei primi minuti del primo episodio c’è una bellissima spiegazione, contornata di immagini, che rende il tutto più semplice da comprendere).

L’infanzia: inizio/ripartenza

credit: WallpaperAccess

L’infanzia riporta all’inizio, alla possibilità di ripartire. “Ognuno ha le stesse possibilità”: questa è la regola fondamentale in Squid Game. Tutti sono uguali! Anche questo è un aspetto interessante: in Squid Game tutti possono vincere, tutti hanno la possibilità di scegliere, tutti hanno le stesse regole, tutti hanno gli stessi vestiti (contrassegnati solo da diversi numeri che identificano i giocatori), tutti non conoscono i giochi che faranno man mano.

L’equità è un tema caro al popolo sudcoreano. La differenziazione tra super ricchi e super poveri permette di capire quanto fragile ancora sia il sistema (tema che ad esempio ritroviamo anche nel famosissimo “Parasite”).

Ma, approfondendo gli aspetti psicologici, non possiamo non notare come Squid Game si basa anche su unioni, alleanze, ma anche tradimenti, inganni.

In psicologia sociale, lo psicologo Kurt Lewin afferma che l’elemento chiave di un gruppo è l’interdipendenza, ossia il legame degli elementi che non riescono a vivere gli uni senza gli altri. Esso, inoltre, individua due tipi di interdipendenza che qualificano due tipologie di gruppo:

1.     interdipendenza del compito: il gruppo nasce perché deve portare a termine un obiettivo per cui è necessaria la collaborazione di molti;

2.     interdipendenza del destino: il gruppo nasce e tiene al suo interno individui che condividono un’esperienza o una condizione esistenziale che li rende uniti perché hanno un destino comune.

Queste definizioni possono essere ritrovate, in maniera superba, in Squid Game.

Basti pensare al 3 gioco, il tiro alla fune, dove il concetto di gruppo coeso è fondamentale per superare la prova; o in generale al concetto di sopravvivenza all’interno del gioco stesso (si formano dei gruppo per “interdipendenza da destino” poiché i giocatori condividono una condizione che li tiene uniti perché hanno un “comune destino”).

Riprendendo il tema dell’“opportunità”, elemento file-rouge di questa recensione, vi riporto un concetto dello psicologo statunitense Philippe Zimbardo definito “Psicologia dell’eroe” (vi consiglio di andare a leggere i suoi scritti e vedere i suoi esperimenti. Oltre ad essere un eccellente psicologo, è anche il mio mito! xD, magari più in là potremmo parlare e approfondire qualche sua ricerca):

L’assunto di Zimbardo è che, se è possibile che una persona “normale” inserita in un contesto “marcio” e che pone pressioni negative possa trasformarsi in un aguzzino, mettendo in atto comportamenti malvagi, allora è possibile anche il contrario, cioè che persone normali possano compiere azioni eroiche se messe nelle giuste condizioni e che, quindi, ognuno possa essere educato e allenato a farlo.” (Eroi di tutti i giorni, Psicologia Contemporanea).

I nostri protagonisti sono liberi di scegliere sempre, in gruppo, se continuare a giocare o meno. Sono liberi di scegliere se giocare pulito o no, se formare alleanze o meno, se tradire o no i propri compagni .

Nel secondo episodio il gruppo decide, una volta visto che si rischia la vita nel non superare il gioco, di abbandonarlo. Perché però, subito dopo, queste quasi stesse 456 persone scelgono di ritornare a giocare? Davvero il mondo esterno fa così paura da pensare che alla fine, nel gioco, se muori è finito tutto, ma se vinci hai il riscatto tanto agognato? Altro spunto di riflessione molto interessante.

credit: Idealia

Ecco quindi che, come abbiamo visto, ognuno ha di fronte a sé, sempre, la possibilità di scegliere: tra giusto e sbagliato, tra bene e male, tra vita e morte. Ognuno può diventare il cattivo della storia, oppure trasformarsi nell’eroe impavido che sconfigge i suoi più grandi mostri.

E’ tutto una questione di scelta!

BIBLIOGRAFIA per curiosi:

Kurt Lewin: relazioni, vita sociale, teoria dei gruppi

Clay R. A. (2014), «Everyday heroes. The Heroic Imagination Project uses psychological research to help students take action», American Psychological Association45 (1),

Zimbardo P. (2020), Zimbardo. Memorie di uno psicologo, Giunti Psychometrics, Firenze.