Tra Colori proibiti e Beijing story

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di Mariachiara Leone

La questione LGBTQ+ nella letteratura asiatica: “Colori proibiti” di Yukio Mishima e “Beijing story” di Tongzhi.

Questi sono due romanzi che permettono al lettore di “farsi una idea” sulla questione di genere in Asia, in particolare in Cina ed in Giappone. 

Sul “vento del sud” (come solevano chiamare in Giappone la questione di genere e i locali frequentati da omosessuali) dei Tongzhi (termine gergale usato in Cina per indicare i gay).

Termine, tra l’altro, che l’autore di “Beijing story” utilizza per “identificarsi” poiché ha scelto l’anonimato ed ancora oggi mantiene il riserbo sulla sua identità.  

Questo perché il romanzo è una storia autobiografica.

Un vero è proprio caso editoriale censurato in Cina, circolato online ed arrivato fino ai lettori italiani con l’ edizione tradotta dal cinese per Nottetempo edizioni a cura di Mario Fortunato la cui postfazione è contenuta nel volume.

Ma andando per gradi di cosa parla “Colori proibiti” e quali sono le affinità con “Beijing story”?

“Ognuno ha come unica ragione di vita un malinteso nei confronti degli altri”

Con “Colori proibiti”  di Mishima (considerato uno dei massimi scrittori giapponesi, morto suicida nel 1970) ci si trova nel Giappone del secondo dopoguerra e si seguono le vicende di due uomini: un vecchio scrittore misogino ed un ragazzo giovane e bellissimo omosessuale, legati da un patto.

La narrazione inizia quando alla vigilia delle nozze, in un momento di confidenza, Yuichi rivela al vecchio Shunsuke di essere omosessuale e di non poter amare la donna che è in procinto di sposare da convenzione sociale.

Per il misogino Shunsuke questo ragazzo non poteva che capitargli tra le mani in un momento migliore.

Decide di utilizzarlo come arma per vendicarsi di tutte le donne che lo hanno respinto o imbrogliato ed una delle donne che il vecchio “punta” per la sua vendetta è proprio la donna promessa sposa al giovane.

Shunsuke si propone per cui a Yuichi come mentore e maestro nell’arte della seduzione per far si che il “segreto” del giovane resti celato alla società e gli consenta di “assolvere” ai doveri coniugali. In cambio il ragazzo deve seguire tutti gli ordini del vecchio ed essergli sempre fedele.

Da questo punto in poi del romanzo, le vicende acquisiscono una piega psicologicamente sottile e crudele che vedrà lo stesso Shunsuke cadere nella rete che egli stesso  crea. Cadere alla mercé di quel ragazzo “Narciso” il cui unico amore è e resterà se stesso.

I punti di congiunzione tra il romanzo di Mishima e “Beijing story” sono molteplici ma il più prepotente è l’assenza. 

L’amore assente che se in “Colori proibiti” è rappresentato da una escalation di situazioni ed un finale assolutamente risolutivo per entrambi i personaggi maschili, in Beijing story rappresenta una assenza forzata dagli eventi, un perdere l’amato e conseguentemente l’amore stesso.

“Colori proibiti” che funge da titolo al romanzo di Mishima  potrebbe tranquillamente essere il sottotitolo di “Beijing Story”.

Nella narrazione di Mishima, quanto in  quella di Tongzhi, i veri colori proibiti ed irraggiungibili sono il Rosso ed il Bianco.

Una danza macabra il cui soggetto sembra essere a primo acchito la vendetta di un brutto vecchio che non prova null’altro che disprezzo verso se stesso, il proprio talento, le donne e gli uomini (anzi per essere corretti per i bei ragazzi).

Un vecchio che decide, posseduto da una visione su una spiaggia, di vendicarsi delle donne della sua vita (che l’hanno fatto soffrire) attraverso un giovane uomo.
Il più bello di tutti. Colui che potrebbe avere qualsiasi donna e che le rifiuta perché incapace di amarle.

Uno scambio di soldi, una “confessione” aperta di omosessualità, una trama che a colpo d’occhio incuriosisce ed ammalia ma che è solo la patina con cui questo scrittore (neanche poi così celatamente) copre un ragionamento che riversa nelle pagine come fosse un testamento ed in qualche modo un atto di fede.

Sembra quasi urlare tra le fila di questa storia “ho cercato quel rosso. Non l’ho trovato ne in me ne in altri, uomini, donne”.

È una lettura molto complessa da digerire, ancora di più se a leggerla, questa storia, è una donna.
C’è una brutalità, un disgusto verso il genere femminile, un tale odio viscerale che sfocia nella scena più cruda e forte di tutta la lettura. Un parto.

Inferni personali. Di questo si parla.

Ed il frutto dell’incrocio di questi inferni personali nella quale i personaggi collimano fomentando l’uno l’inferno personale dell’altro è tale che il frutto del grembo di questa narrazione, di questo vecchio brutto uomo è la nascita di un mostro bellissimo che divorerà il vecchio stesso.
Un parto per natura impossibile da realizzare per un uomo.
Perché è di questo che si tratta un vecchio brutto che partorisce un bellissimo uomo.

Quel tanto agognato rosso, quello dell’amore, di un sentimento così inaspettato ed inatteso che contro ogni previsione è l’inferno stesso di colui che ha ordito ed è stato sottomesso.

Così, come un gioco di specchi (oggetto molto importante nel corso del romanzo) il lettore vedrà riflesso il vero volto, il vero personaggio mancante.
L’amore, che nella sua assenza sprigiona una crudeltà senza pari.

Un colore, il Rosso che si riversa nell’assenza del Bianco, una purezza di intenti inesistenti. Colori bramati anche dal protagonista di Beijing story che li vedrà colare via insieme a sangue e lacrime.

Di Beijing story è difficile “raccontarne” l’esperienza di lettura. 

Questo romanzo è una pugnalata profonda che produce un dolore assai forte a chi legge.

Non ci sono parole egualmente efficaci come quelle usate dallo scrittore per descriverlo.

L’unica cosa da fare e cedere il testimone alla postfazione del romanzo e la sapiente analisi fatta dal curatore del testo, il quale spingerà sicuramente meglio di quanto non facciano queste righe, al recupero di questa preziosa lettura.

Postfazione di “Beijing story” di Mario Fortunato

Dal punto di vista riflessivo sul “tema” emerge dunque come, sia in Giappone che in Cina, all’ora come oggi, ci sia un problema di fondo nell’affrontare la propria sessualità, abbracciarla e poi sentirsi parte di una società, essere poi “rappresentati”. 

“A quel tempo la Cina era molto più arretrata di adesso. Era difficile per noi trovare una chiave che ci consentisse di capire correttamente i nostri sentimenti; e forse, in maniera inconscia, evitavamo proprio di capire”